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Chi considerate come un maestro, una figura di riferimento di cui vi sentite in qualche modo eredi? 

Bruno Vaerini

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Nino CalosMobile Lumineux, 1974

«Mi è sempre un po' difficile rispondere qual è la figura di riferimento di cui mi sento un po' erede. La mia formazione artistica e culturale inizia negli anni Settanta, alla scuola d'arte Andrea Fantoni di Bergamo. Come studente ambizioso e sognante pensavo di fare l'artista – pittore, scultore, … - un traguardo, una conquista di libertà culturale e formativa che voleva spaziare in più campi. I miei riferimenti alla storia antica e moderna mi hanno sempre dato delle risposte e ancora oggi sono il basamento della mia architettura. L'arte come ricerca della bellezza diventa un atto d'amore verso l'uomo che molti grandi maestri mi hanno donato. Oltre ai grandi della storia, sono state molti i punti riferimento che hanno guidato e nutrito il mio percorso. Dovendo scegliere un unico nome credo che la persona ad avermi dato di più sia Nino Calos, con cui abbiamo lavorato per molti anni, condividendo un amore per la luce, fondamentale sia in arte che in architettura. Questo artista francese di origini siciliane, con una cultura a tutto tondo, mi ha insegnato a considerare le arti con occhi diversi. Prendo in prestito le parole di Giulio Carlo Argan per descrivere la potenza delle opere di Nino “due punti, nella ricerca di Nino Calos, mi sembrano specialmente importanti: primo la luce non è più considerata come un mezzo o tramite della percezione ma come il suo oggetto; secondo, l'opera cinetico-luminosa non fa dell'opera uno schermo illuminato ma una sorgente luminosa. Le possibilità concrete di una “integrazione” dell'opera visiva all'architettura diventano infinite».

Pietro Gellona

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Francesco Venezia | Zaha Hadid

«Il mio primo maestro è stato Francesco Venezia. Insegnava progettazione quando ho iniziato gli studi e avevo ancora vaghe

idee su cosa fosse l'architettura. Alcuni dei temi fondamentali che hanno segnato la mia formazione sono stati: le proporzioni e la sezione aurea, l'attacco a terra e attacco al cielo dell'edifico, accessi e percorsi, l'uso sapiente della luce solare a naturale,

l'importanza dei materiali e dei trattamenti superficiali, la cura del dettaglio. In seguito, devo necessariamente citare Zaha Hadid a Vienna, già archistar, la quale mi ha insegnato ad essere più preciso, a giustificare le scelte progettuali, a sperimentare con le  forme, con un tratto più fluido e dinamico quando i primi programmi di modellazione 3d avevano dato nuova linfa alla progettazione, nell'epoca della transizione fra l'analogico e il digitale.

Determinare di chi sia erede non è sicuramente facile, sarà compito di altri colleghi determinarlo se e quando avrò l'opportunità di costruire un maggior numero di opere».

SET Architects

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Luigi Moretti, Spazio, 1951

« Non c’è una figura specifica che consideriamo un nostro maestro ma possiamo affermare che ci sentiamo eredi di tutti coloro che hanno studiato la città di Roma e tratto ispirazione da essa. Roma è il luogo dove ci siamo formati e dove è iniziato il nostro percorso professionale. È una città frutto di contrasti e stratificazioni che la rendono fragile e immortale allo stesso tempo. Osserviamo con attenzione le architetture classiche e ne facciamo una lettura critica, questo processo ha fatto nascere all’interno dello studio un dibattito sul tema della monumentalità dell’architettura. Questa monumentalità erede della Roma Imperiale ha trovato una magistrale reinterpretazione con il movimento razionalista, che ha avuto a Roma un ampio campo di sperimentazione. Il razionalismo è senza dubbio una forte fonte di ispirazione per il nostro modo di fare architettura. Ne apprezziamo l’essenzialità delle forme, la purezza delle geometrie, lo studio delle proporzioni e la ricerca legata alla struttura dell’edificio. In particolare troviamo illuminante la ricerca di Luigi Moretti sulla struttura come elemento formale e compositivo e i suoi studi sulla sequenza dello spazio. Questi ci raccontano una precisa idea architettonica espressa nella sua stratificazione temporale».

Baserga Mozzetti

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La falce

«Abbiamo tanti maestri, non uno in particolare. Siamo eredi dei nostri avi contadini».

Atelier Remoto

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Spiaggia, Albarese, 2018

«Atelier Remoto nasce in forma incosciente più di dieci anni fa, durante un viaggio nel sud del mondo, tra il Pacifico e le Ande, curiosamente cullato lungo le tratte degli autobus notturni che percorrono la carretera austral, tra vulcani, laghi andini, deserti e orizzonti infiniti. Tra le Alpi cresce e negli anni si fortifica, al calore di camini in serate accompagnate da amici e architetture. Poi esce dal nido, e timidamente muove i primi passi solitari tra Grigioni e Messico.

Atelier Remoto nasce in forma cosciente nella primavera di qualche anno fa, in un pomeriggio di pioggia bolognese, davanti a una bottiglia di Pignoletto e futuri incerti.

Da sempre ci nutriamo di immaginari, di pulsioni, di geografie disparate e orizzonti transitori, assorbiamo e traiamo insegnamento da visioni, incontri, paesaggi e storie.

Oggi più che mai, consapevoli del valore dell’incertezza, continuiamo a confrontarci con immaginari variegati e geografie, le costanti più ricorrenti della nostra formazione fino ad ora.

Riscopriamo nel mosaico dei nostri incontri passati e presenti alcune figure fondamentali che tramite la pratica condivisa, il pensiero, il gesto, rappresentano riferimenti che compaiono nel nostro approccio progettuale e relazionale. 

Lina Bo Bardi in quanto architetta europea espatriata, capace di calibrare la propria pratica a contesti culturalmente molto diversi, di comprendere un territorio e reinterpretarne un carattere. 

Da qualche anno lavoriamo entrambe come assistenti alla docenza per l’architetta brasiliana Carla Juacaba e in questo momento di geografie compresse, il nostro pensiero architettonico risuona di echi latini, oltre oceano.

Ammiriamo Yvonne Farrell e Shelly McNamara di Grafton Architects per la loro paziente e duratura pratica condivisa, esempio di amicizia potente e collaborazione proficua, costruttrici di architetture libere, aperte e radicali».

Marko Radonjić
 

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Smiljan Radic, disegno di studio per il Serpentine Pavilion, 2014

«Non ho la certezza di avere un maestro. Cerco di capire cosa differenzia un architetto da un altro e di imparare dall’approccio di ciascuno di essi. Alcuni progettisti sono maggiormente focalizzati sull’arte, sulla filosofia, piuttosto che sui dettagli costruttivi. Tutti questi aspetti mi interessano. Ricordo di essere rimasto molto colpito dalle opere di Smiljan Radic dopo averlo ascoltato in una conferenza che ha tenuto a Zagabria nel 2015. Il suo specifico approccio nello sviluppo del processo progettuale e le molte influenze derivate dagli oggetti o dalle esperienze vissute da giovane mi ricorda Pensare Architettura di Peter Zumthor, o anche il racconto Le primavere di Ivan Galeb, scritto da Vladan Desnica, in particolare il brano in cui descrive la maniglia di una porta e del passaggio della luce attraverso il buco della serratura. Queste esperienze sensoriali sono preziose e l’architettura, senza di esse, è una mera immagine superficiale. Della conferenza, mi piace sottolineare il passaggio in cui Smiljan ha parlato della sua manualità imprecisa e goffa, motivo per cui non costruisce modelli fisici e invece produce bellissimi disegni, liberi da qualunque stile architettonico e che portano ad un’architettura che non rimanda a nessun’altra».

José Martins
 

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Centro de Educação e Cultura de Quarteira, con Carvalho Araùjo, 2019

 

«Nonostante sia stato influenzato da molte figure del mondo dell’arte, della musica e da alcune architetture che mi hanno emozionato profondamente, devo dire che, soprattutto ai miei inizi professionali, Carvalho Araùjo ha ricoperto un ruolo fondamentale nella mia formazione. È una figura estremamente generosa e presente che merita tutto il mio rispetto e la mia amicizia».

Iván Bravo
 

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Juan Pablo Langlois / Cuerpos Blandos / 1969 / Museo Nacional de Bellas Artes

 

«Juan Pablo Langlois è stato un artista cileno che ha dedicato la propria vita ad esplorare il concetto di spazio nelle sue le molteplici declinazioni.

L’aspetto che vorrei sottolineare del suo lavoro è il modo in cui, rimanendo fedele alla sua linea di pensiero, l’autore abbia saputo rispondere al cambiamento dei tempi con lavori sempre radicali, caratterizzati da risultati inaspettati.

Sono infiniti i contenuti che si possono rintracciare dalle sue opere e dal suo percorso artistico riguardo lo spazio, di come quest’ultimo caratterizzi e condizioni la vita dell’uomo».

Howland Evans
 

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Il gargoyles di Le Corbusier al convento de la Tourette


 

«Troviamo difficile riconoscere la figura di un maestro. Abbiamo lavorato per e con personalità diverse che hanno influenzato la nostra pratica, inoltre la nostra opera trae ispirazione da un vasto panorama di riferimenti, dalle costruzioni vernacolari ai vaghi ricordi di spazi vissuti molti anni fa. Ci diverte l’atteggiamento di estrema libertà creativa focalizzata sull’economia dei mezzi che si può riscontrare nelle scuole di musica e di balletto costruite vicino all’Havana tra il 1961 e il 1965 da Ricardo Porro, Vittorio Garatti e Roberto Gottardi e nei primi lavori di Herzog & de Meuron, quali ad esempio la Plywood House del 1984 o la Casa per un collezionista d’arte del 1985. Per noi, come ovviamente per molti altri, le considerazioni riguardo il clima sono sempre più importanti e il pensiero va subito alle opere di Le Corbusier e ai dettagli enfatizzati e giocosi riguardanti il rapporto con la pioggia e con il sole, oppure ai sistemi di raffrescamento naturale impiegati da Hassan Fathy, Minnette da Silva e altri, così come l’immensa saggezza di cui sono intrisi gli edifici vernacolari di tutto il mondo. Siamo convinti che la creazione di un’opera di architettura dovrebbe rappresentare un atto di generosità, anche nel caso in cui riguardi l’ambito privato di un’abitazione come spesso accade nel nostro lavoro. A proposito di questo aspetto ci giunge alla memoria la lunga seduta posta sul basamento di Palazzo Rucellai di Leon Battista Alberti, il dakali nell’architettura del popolo Hausa o il lavoro di Hermann Hertzberger e Aldo van Eyck. Portiamo con noi un archivio mentale di riferimenti, di frammenti di cose viste, non costituito soltanto da architetture ma da dipinti, sculture, fotografie, film, un archivio che può aiutare, a risolvere un dato problema, spesso inconsciamente. E spesso l’aspetto più sorprendente è come il riferimento appropriato sembri emergere dal nulla, durante le fasi iniziali del progetto. Il processo progettuale qualche volta incontra dei rallentamenti, diventando laborioso ed artificioso ma il giusto riferimento può improvvisamente sbloccare tutto».

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Arturo Martini, Chimera


 

«Risulta difficile assegnare un significato preciso alle parole ‘maestro’ o ‘eredità’.

Entrambe custodiscono lo spettro di una interpretazione lineare della storia – l’apprendistato, il riconoscimento di una guida e di un divenire in evoluzione – una successione logica di eventi che probabilmente poco si addice ad una educazione contemporanea contraddistinta dalla simultaneità dei riferimenti, dall’accessibilità ad una conoscenza multiforme, dall’internazionalizzazione delle accademie.

Intuiamo di formare parte di un sistema di relazioni maggiormente stratificato, dove è possibile raggiungere distinti – e distanti – maestri che partecipano inconsapevolmente alla nostra formazione».

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Arturo Martini, Chimera


 

«Non utilizzerei necessariamente il termine maestro o eredità, sebbene possa ritenere due fra insegnanti conosciuti durante i primi studi di architettura, Edward Wojs e Ian MacBurnie, i responsabili del mio modo di lavorare, particolarmente per il fatto di condurre uno studio di piccole dimensioni e per il fatto di dedicare attenzione all’insegnamento. Ho lavorato per Edward per alcuni anni in seguito alla fine dei miei studi e posso dire di aver imparato come organizzare il lavoro, con molto sforzo ma con grande passione e divertimento. Ian McBurnie mi ha coinvolto invece nell’impegno accademico e nell’insegnamento, facendomi confrontare con le dinamiche di trasmissione del sapere derivante la pratica costruttiva. Con entrambi condivido un amore per l’architettura che definirei contagioso».

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