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Appena prima di arrivare alla festa

Giovanni Mazzanti

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Quartiere Grigioni, Milano

Mentre guido lungo il tragitto per arrivare alla casa, immagino la maniglia della porta: di ottone, rotonda e liscia; per aprirla bisogna compiere una rotazione del polso che non mi riesce naturale. In compenso quella scomodità mi rende subito conscio, come una piccola scossa elettrica, del fatto che sto per entrare; rende palpabile il momento in cui, varcando la soglia, dalla strada passo all'interno (sono ancora in macchina). Salgo le scale e mi ritrovo davanti alla porta; dentro le voci si mischiano con la musica e tutto rimbomba un po’, la casa deve essere piuttosto grande, penso. Prima di entrare ipotizzo la disposizione delle persone all'interno: alcuni sono sul divano ad angolo in sala e saranno probabilmente i primi a vedermi entrare. Non voglio rompere subito i loro discorsi e quindi me ne sto fuori, davanti alla porta ancora per un attimo, assaporando il momento in cui due universi paralleli, l’interno e l’esterno, ancora si ignorano. Che effetto produce l’entrata di una persona in una stanza? Per esempio: perché la mia entrata sia discreta sarebbe meglio che nella stanza, diciamo di forma rettangolare, si entrasse dal lato lungo o dal lato corto? E se invece ci fosse un piccolo ingresso, un disimpegno? Qualsiasi effetto prodotto dall’entrata sarebbe neutralizzato, o almeno rimandato a dopo, quando, superato l’ingresso, si varca la soglia che conduce in soggiorno (ho appena chiuso la portiera della macchina, ora mi incammino verso la festa). Ma come fanno i vicini a non lamentarsi del rumore? Una volta entrato, noto che la casa ha finestre alte quasi fino al soffitto, lunghe e strette come quelle di una chiesa gotica, che affacciano su una strada trafficata. Penso che se i vicini non si lamentano, è forse perché sono abituati al rumore delle macchine e dei tram che passano sui binari. Poi, mi spiega il mio amico che ci abita, tutte le camere da letto sono rivolte verso la corte interna che invece è molto silenziosa, con la biancheria stesa su lunghi fili bianchi che corrono da una finestra all’altra e rendono i vicini di casa meno diffidenti l’uno dell’altro (sono arrivato davanti al portone d’ingresso). Mi sembra che i muri di questa casa odorino di mediterraneo, mi ricordano quelli della portineria in cui lavora la madre di un mio amico; quando cucina tiene spesso le finestre chiuse e i profumi e i vapori gonfiano la stanza: l’odore del soffritto, del caffè, della carne si mescolano e impregnano i muri, come fossero spugne. Questo tipo di odore che i muri emanano mi sfugge spesso e me ne ricordo solo nel preciso istante in cui, tornando a casa dalle vacanze estive, salite di corsa le scale, apro la porta rimasta chiusa per settimane ed entro respirando (salgo su per le scale, suono il campanello e aspetto).

Le Saline di Cervia

Andrea Milesi

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Giugno 2017 e 2018

Ci si passa sempre all’ora del tramonto e tutto profuma di mare e di vento tiepido. Il sole giallo si abbassa velocemente sul filo dell’orizzonte su cui si staglia il profilo scuro della ruota panoramica. Arancio e rosso, salendo, il cielo si fa viola e infine blu, con l’acqua che di rimando riflette i colori disegnando geometrie orizzontali e forme morbide impastate in un rosa di fondo che tutto sostiene e trattiene.

Forse l’impressione lasciata dai fenicotteri che non sono mai riuscito a vedere.

Arte invadente

Caterina Pilar Palumbo

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La discesa

È organica,
prepotente,
corporea,
incombente,
dinamica,
visionaria,
quasi fantascientifica.

La Discesa dello Spirito Santo di Somaini appare così, una scultura che esce dall’oculo di facciata e si appropria dell’edificio, ricucendo il fronte incompleto. Il lavoro si sviluppa partendo dalla massa, dalla carne modellata, dalla plasticità che deriva dall’erosione della materia. Da qui si nota la nascita di linee di forza dinamiche, percepibili solamente superando il primo violento impatto visivo dell’opera e della sua ombra, che inesorabile incombe e scivola verso i passanti.

Che cosa succede quando si delega l’arte a risolvere un problema architettonico?
Durante il progetto di restauro del 1972, diretto dall’architetto Bruno Cassinelli con la consulenza di Luigi Caccia Dominioni, si è deciso di affrontare il problema della facciata incompiuta accantonando definitivamente l’idea del completamento stilistico. La seduzione del non finito prevale e l’intervento architettonico conservativo si limita a mettere in evidenza le diverse tessiture murarie. Ora la regia passa all’artista, che con il suo approccio risolutivo ne dà una brutale interpretazione. L’opera d’arte tende ad assumere una propria indipendenza espressiva, lo spettatore ormai è catturato dalla colata di bronzo che si aggrappa alla facciata, è quasi infastidito, si chiede come possa quella scultura rappresentare una figura tanto eterea. L’ossimoro tra il palinsesto lapideo, la plasticità dell’opera e il significante è ormai compiuto, il progetto è stato risolto, la facciata è completa.

La ragazza con il timpano perforato

Marco Zonca

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Banksy, The girl with the pierced eardrum, 2014

È durato solo un secondo. Un suono improvviso, lancinante. In quel vicolo, il buio veniva inframezzato dalle luci fioche di alcuni lampioni. Poi, ad un tratto, il suono. La luce giallastra intermittente. Lei si gira per un attimo. Forse attirata dalla mia presenza, forse preoccupata, forse più semplicemente presa alla sprovvista dall’allarme. Ha lineamenti gentili, il capo coperto da uno strano turbante. Lo sguardo preoccupato, poi incuriosito. Si accorge di me solo per un breve attimo, ma sembra quasi avermi conosciuto. Uno sguardo sorpreso, sospettoso, illuminato, complice. Apre per un attimo le labbra, come per dire qualcosa. Poi si ferma, abbassa gli occhi, indietreggia. Il corpo si sposta con una reazione involontaria, per tentare di allontanarsi da quel suono. Il vicolo sembra ancora più stretto, si rivela poco a poco. Rivela i segni di un tempo che sembra essersi abbattuto in quello spazio angusto, dove nulla sembra avere importanza, sembra avere un senso, uno scopo. Niente esiste, se non il rumore, violento, e la luce, rivelatrice d’ombre che contengono mistero e quotidianità. Lei mi guarda, acclimatatasi al rumore, al freddo di quelle serate invernali. I capelli quasi completamente coperti da quel copricapo insolito, dal quale nessuna ciocca fa capolino, con una strana linearità che stona rispetto al suo abbigliamento. Non avevo mai visto nessuno vestito in quel modo. Sembra comparsa da un altro mondo, un ricordo sbiadito che torna vivido per un breve attimo. Mi guarda immobile, mentre la staticità del contorno diventa intermittenza. Di colori, di suoni, di tempo. Il grigio e il nero si mescolano ad un giallo invecchiato, sbiadito e stanco. Stanco di vedere, di chiamare, di vigilare. La neve grigiastra si mescola all’asfalto rovinato, la pioggia battente lava il giallo riflesso della stradina e delle pareti che la rinchiudono, verso un punto cieco alla fine. Rimango immobile ad osservare la compostezza del corpo, la grazia dei movimenti fulminei, improvvisi, a tratti impercettibili. Cadono gocce sui nostri volti, disegnano i contorni nelle nostre realtà. Si fanno più insistenti, i volti diventano acquerelli. Gli occhi sono fermi, immobili, specchi che riflettono le tonalità di giallo che riempiono lo spazio, deformando la percezione dei colori reali. Il tempo rimane immobile in attesa di un evento. In attesa di un nuovo limite tra prima e dopo. Tutto resta com’è, tranne la pioggia, che si ferma nel suo continuo cadere, regolare, cadenzato. Come quel suono fastidioso, regolare, cadenzato, ormai familiare, conosciuto, non temuto. Il freddo supera la fragile resistenza degli abiti, l’acqua si confonde con la terra. Una goccia nera segna il viso della ragazza. Si volta, corre lontano. Non ho la forza per seguirla. Rimango immobile, cristallizzato nel freddo che diventa ghiaccio. La pelle prende il sopravvento sul resto del corpo, la lotta contro le rigide temperature di quella notte impone un rinsavimento. Il suono si ferma, rimane solo l’eco di passi veloci e regolari, bagnati di pioggia. L’orizzonte è libero. Resta solo una piccola rifrazione di luce sull’asfalto. Un piccolo orecchino, a forma di goccia. Lo prendo, lo chiudo in un pugno, ricordo di un attimo. Mi volto, torno sui miei passi.

ATTO II Dialogo tra Architettura e la sua antitesi

Marianna Frangipane

MF 01.ATTO II Dialogo tra Architettura e

 

Salotto d'estate

Nell’esercizio di scrivere l’editoriale di una rivista d’architettura una prima questione che emerge è: Come definire i limiti di questa disciplina? Dove finisce l’architettura e dove inizia tutto ciò che architettura non è? 

 

 

ATTO II

 

La signora, dopo essersi alzata e aver urlato a piena voce il suo nome “A R C H I T E T T U R A”, si rese conto che le sue parole stavano fluttuando nel vuoto, non c’era nessuno che la ascoltasse. Al più presto aveva bisogno di un interlocutore. Era necessario individuarlo per non rimanere un bellissimo nome, un nome che risuonava senza musicalità in uno spazio vuoto. Iniziando a pensare al di fuori di sé… una figura apparve, scontrosa e irruenta, che urlò a piena voce: 

“A R U T T E T I H C R A”. Come se la scena precedente si fosse riflessa su uno specchio,

Architettura e Aruttetihcra erano lì, una contrapposta all’altra. Architettura, perturbata da questa nuova presenza non familiare comunque consapevole delle proprie capacità, si fece avanti e iniziò un animato dialogo:

 

Arc: Chi sei tu? 

 

Aru: Son la tua antitesi, tutto ciò che esiste fuor da te! Son dunque Politica, sono Musica, Teatro, Scultura, Letteratura, Scienza, posso esser tutto quel che tu non sei. 

 

Arc: La ragione per cui tu sei qui non comprendo.

 

Aru: Son qui perché tu, mia cara architettura, sempre avrai bisogno di me. 

 

Arc: Son un po’ perplessa, ma continuo ad ascoltare le tue ragioni.

 

Aru: Per meglio esporre il mio pensiero farò uso di una metafora, presa in prestito da un noto filosofo… Io son a te indispensabile come gli argini ad un fiume. Per potere esprimere tutta la propria forza, il corso d’acqua deve essere incanalato altrimenti sarebbe indefinito e si disperderebbe come l’acqua di un ruscello privo di argini. Dunque, tu ora non sei che un nome, un accostamento armonico di lettere, una parola. Qualcosa cambierà, con me spesso ti affiderai e o ti scontrerai, intraprenderemo un viaggio e quando nel tuo mondo tornerai, questo sarà cambiato, tu stessa, Architettura mia, sarai matura, sintesi di tutte le tue nuove esperienze.

 

Ascoltate attentamente queste parole, Architettura realizzò che niente era più come prima, uno spazio nuovo si era delineato nel suo intorno. Non ne conosceva le figure, non riconosceva gli odori e le consistenze, ma sentiva nel profondo che tutto quel che faceva parte di quel mondo estraneo, nuovo, avrebbe assunto forme familiari, avrebbe parlato la sua stessa lingua un giorno. 

Architettura, entusiasta, affamata e curiosa di nuova conoscenza pose l’ultima domanda prima di intraprendere quel misterioso viaggio.

 

Arc: Dove siamo ora dunque?

 

Aru: questo spazio si chiama in parte come te Architettura, ma parla di me, si chiama “Architettura, fuori di sé” 

Gli architetti e il mare/1. La partenza

Davide Fusari

DF 01.Gli architetti e il mare_1. La par

 

Luigi Ghirri, Lido di Spina, 1974

Gli architetti e il mare. Relazione amata, cercata, difficile, ritrosa.

Nei paesaggi presso il mare si è cercata l’ispirazione.

Nei paesaggi presso il mare si è sfogata la frustrazione.

Presso il mare siamo rinati, ci siamo riposati, ci siamo incontrati.

Presso il mare ci siamo consumati, siamo stati inghiottiti dalle onde.

 

Alcune fotografie di Luigi Ghirri - specialmente quelle che ritraggono i lidi emiliano-romagnoli e l'"Italia in miniatura" nella serie Paesaggi italiani - mi hanno suggerito un viaggio attraverso l’Italia al mare sub specie architectonica. Un viaggio mentale, personale, pieno di lacune e di balzi e dedicato al solo secondo Novecento (1945-80).

 

Per questi giorni d’agosto, per “fare il bagno al largo, per vedere da lontano gli ombrelloni-oni-oni”, in modo disimpegnato e senza reclami né giudizi, in perfetto stile balneare: altrove sarebbe necessaria una riflessione su come abbiamo costruito e sui relativi risvolti ambientali, sociali e culturali.

 

Il viaggio si suddivide in quattro contributi che percorrono in senso antiorario la penisola con incursioni sulle isole.

 

Partiamo!

 

Ospedaletti, Complesso di Capo Nero. Il profilo della machine à habiter di Luigi Carlo Daneri ridisegna potentemente lo spessore tra terra e mare.

 

Bergeggi, Torre del Mare. Le complesse geometrie di Mario Galvagni concretizzano il silenzio del mare in una “favola moderna” che prorompe dal declivio della costa.

 

Arenzano. Nell’immensità della pineta Luigi Caccia Dominioni, Anna Castelli, Ignazio Gardella, Vico Magistretti, Roberto Menghi, Gio Ponti, Marco Zanuso portano Milano al mare.

 

Framura, Case rosse. Aggrappate sulle pendici della costa e senza rinunciare al consueto rigore geometrico, le case di Vico Magistretti rivelano ad ogni sguardo nuovi scorci.

 

Sarzana, Locanda dell’Angelo. Lungo l’ultimo tratto del Magra, Vico Magistretti dispone una grande casa tra clichè figurativi della domesticità e inaspettate incursioni di materiali moderni.

 

Marina di Carrara, Condominio di via Venezia. Nella tranquilla serialità della fabbrica marittima, Edoardo Detti inserisce un parallelepipedo astratto lavorato volumetricamente. Da subito detto “Cremlino”.

 

Marina di Massa, Soggiorno marino Olivetti. Con un rigore quasi imprenditoriale ma che non ne sminuisce la sensibilità paesistica, Annibale Fiocchi dispone tra i pini un compatto organismo modernista.

 

Marina di Massa, Villa ai Ronchi. Memoria di composizioni loosiane, la villa di Aldo Rossi incastra spazi e compone bianchi volumi tra gli alberi della pineta.

 

Baratti, Case L’esagono e Saldarini. Le architetture organiche di Vittorio Giorgini popolano la pineta innestandovi costruzioni poligonali e creature zoomorfe, sperimentando scheletri in membrana isoelastica di rete e cemento.

 

Castiglioncello, Villa Cardon. Protesa sul porticciolo, la villa di Leonardo Ricci slancia verso il mare arditi vassoi abitabili.

 

Castiglione della Pescaia, Punta Ala. Ludovico Quaroni con una traccia reticolare, Ignazio Gardella con un segno deciso e calibrato, Walter di Salvo con geometrie organiche impostano i principi di un’urbanizzazione che, assecondando le curve di livello, si insinua nel paesaggio, strutturandolo.

Gli architetti e il mare/2. Itinerari insulari

Davide Fusari

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Luigi Ghirri, Lido di Volano, 1988

Proseguiamo il viaggio con un itinerario insulare sardo e una breve tappa all'Elba.

 

Traghetto Livorno-Olbia e ritorno

 

Porto Cervo e Costa Smeralda. Michele Busiri-Vici e Luigi Vietti interpretano il sogno imprenditoriale dell’Aga Khan in un viaggio attraverso la fantasia delle forme che giunge alla fondazione di uno stile tra immaginazione e genius-loci.

 

Arzachena, Case di vacanza. Sacro, ciò che è legato ad un valore trascendente; per estensione, inviolabile, separato. L’abitare e le relazioni domestiche vengono intese da Marco Zanuso come azioni quasi sacrali configurando un temenosche solo puntualmente dialoga con l’intorno.

 

La Maddalena, Due case. Un bunker e un teatro. Grigio fucile e terra bruciata. Metafore e colori descrivono le due case di Cini Boeri alla Maddalena nel loro comporre gli spazi per l’abitare tra introversione e coinvolgimento con il paesaggio.

 

Costa Paradiso, Ville. Affiorando dalle rocce e conformandovisi, le ville di Alberto Ponis portano all'esasperazione l'apparente spontaneità di un linguaggio.

 

Stintino, Case Di Palma. Moderni nuraghi, le case di Umberto Riva si dispiegano tra terra e mare come segni della geografia componendo intimità e convivialità.

 

Costa Paradiso, La Cupola. Tra le rocce e il mare Dante Bini gonfia e arreda una delle sue cupole in cemento armato per Michelangelo Antonioni e Monica Vitti.

Traghetto Piombino-Portoferraio e ritorno

 

Marciana, Casa Balmain. Leonardo Ricci attraversa il Tirreno e progetta una villa che unisce concrezione del suolo e astratti volumi in bilico tra domesticità e paesaggio.

 

Isola d’Elba, Cabine. Simbolo della cultura del mare e di un certo modo di abitare estremamente temporaneo, diventano archetipi del mondo delle immagini di Aldo Rossi influenzandone la poetica e gli allievi.

Gli architetti e il mare/3. Giù per la costa tirrenica e la Sicilia

Davide Fusari

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Luigi Ghirri, Cervia, 1989

Memorie visive e letterarie a cavallo tra il Neorealismo e Pasolini accompagnano il tratto di viaggio che si snoda dal Lazio sino alla Sicilia.

 

Santa Marinella, Ville La Saracena, La Moresca, La Califfa. I bianchi, sinuosi, materici muri delle ville di Luigi Moretti avvolgono gli spazi per l’abitare proteggendoli dalla strada e aprendoli al mare.

 

Fregene, Casa sperimentale. In mezzo alla pineta, Giuseppe Perugini scompone le funzioni dell’abitare  le espone al vento in forma di capsule e volumi sorretti da un esoscheletro in cemento armato.

 

Lido di Ostia, Chiesa di Nostra Signora di Bonaria. Nell’accumularsi di volumi ora concitato ora trascurato che caratterizza il Lido, Francesco Berarducci, Giorgio Monaco e Giuseppe Rinaldi realizzano una chiesa-piazza, un suolo inclinato e evidenziato da dune, che ricopre uno spazio assembleare sperimentale.

 

Lido di Ostia, Kursaal. Attilio Lapadula e Pierluigi Nervi danno forma plastica allo scenario dello svago vacanziero, mostrandone soprattutto nel trampolino le potenzialità figurative.

 

Sabaudia, Villa Volpi. L’estro di Tomaso Buzzi dispone sulle bianche dune una composizione quasi-palladiana che, inattesa, lascia stupiti, sogno di una notte d’estate.

 

Sperlonga, Villa De Renzi. Moderno maschio fortificato, sorge tra le pendici sassose questo ritiro neorealista cercando il paesaggio attraverso bianchi bovindi ed esili balconcini.

 

Ischia, Terme Regina Isabella. Nel luogo dell’ispirazione dei Moderni all’italiana, Ignazio Gardella realizza un’architettura che conserva il frontone del precedente edificio neoclassico e con disinvolta eleganza vi innesta un volume quasi silenzioso all’esterno e raffinato all’interno.

 

Termini di Sorrento, Villa von Saurma. Con Bruno Morassutti tra tettonica del suolo terrazzato, plasticità di una bianca copertura sospesa e leggerezza delle vetrate che aprono al mare.

 

Vietri sul Mare, Fabbrica ceramiche Solimene. Bastione tra terra e costa, il potente interno della fabbrica di Paolo Soleri configura plasticamente la facciata sinusoidale che grazie alla sua materialità racconta dell’edificio e della sua produzione.

 

Mortelle, Città balneare. Astrazione e figurazione si incontrano nella costruzione dell’infrastruttura balneare di Mortelle: le strutture zoomorfe, i volumi squadrati e i piani colorati di Filippo Rovigo disegnano il profilo tra costa e mare.

 

Cefalù, Casa Salem. Giocando sull’ambiguità tra la caducità della palafitta, l’immanenza della torre e l’articolazione della quotidianità domestica, la casa di Pasquale Culotta e Giuseppe Leone si pone sugli scogli quasi come un monolite che nella sua eleganza cerca di non prendersi troppo seriamente.

 

Sciacca, Teatro popolare. Giuseppe Samonà scompone e ricompone le parti che compongono il teatro entro una macchina dalle forti valenze plastiche accentuate dalla scenografica collocazione.

Gli architetti e il mare/4. Risalendo la costa orientale tra Ionio e Adriatico

Davide Fusari

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Luigi Ghirri, Marina di Ravenna, 1986

Risalendo lo Ionio e l'Adriatico la varietà delle architetture proposte ricompone la polifonia (talvolta cacofonica o dimessa) della vacanza all'italiana.

 

Capo Rizzuto, Villaggio Valtur. Luisa Anversa concepisce un villaggio turistico come occasione di architettura interpolando mat-building e lettura del paesaggio, dei suoi spazi, delle sue luci e dei suoi materiali.

 

Otranto, Casa nel centro storico. Continuità morfologica e trasgressione formale, compattezza nell’insieme e frammentazione nel dettaglio, la casa progettata da Umberto Riva sta tra la città e il mare, tra l’anonimato e l’autoriale, tra oggi e ogni tempo.

 

Gargano, Resort a Manacore. Marcello D'Olivo, in trasferta, traccia segni geroglifici sulla costa garganica che si realizzano solo in parte quasi scaturendo dalle rocce ora sovrapponendosi ora scavando organicamente il terreno.

 

Francavilla al Mare, Chiesa parrocchiale. “Chi ascolta queste mie parole e le mette in pratica sarà simile a un uomo intelligente che ha costruito la sua casa sulla roccia. È venuta la pioggia, i fiumi sono straripati, i venti hanno soffiato con violenza contro quella casa, ma essa non è crollata, perché le sue fondamenta erano sulla roccia” (Mt, 7, 24-25 per Ludovico Quaroni).

 

Gabicce Mare, Castel Paradiso. I BBPR dispongono sulla scogliera un complesso residenziale che non rinuncia alle consuete scalettature e a articolazioni volumetriche, collegandosi al mare tramite un percorso in caverna arricchito dai graffiti di Oscar Melano.

 

Riccione, Colonia marina Enel. Giancarlo De Carlo con le due braccia segmentate e articolate in sezione della sua colonia squamata isola e incorpora una porzione di mare e del suo orizzonte. 

 

Rimini, Isola delle Rose. Inutilmente si cercherà quest’isola, utopia moderna, quasi una “città invisibile”, piattaforma artificiale progettata e costruita da Giorgio Rosa, piccola follia moderna presto risucchiata dalla storia.

 

Rimini, Cesenatico e Milano Marittima. Tre “grattacieli” di 118, 118 e 91 metri punteggiano la costa romagnola suggerendo modelli alternativi di sviluppo del territorio che tendono verso la pragmaticità moderna così come, in orizzontale, lo strutturato centro commerciale di Pinarella.

 

Milano Marittima, Club Woodpecker. La cupola e il suolo polilobato di Filippo Monti giacciono sospese nel tempo, tra pineta e saline, memorie di divertimenti passati.

 

Lido di Spina, Casa-studio Remo Brindisi. Nella generica cornice di uno dei lidi di Comacchio, Nanda Vigo inserisce un edificio quasi ordinario che all’esterno si distingue solo per il riverbero della potenza spaziale di un interno al contempo casa e spazio espositivo spiraliforme.

 

Isola di Albarella, Complesso turistico. Una urbanizzazione apparentemente leggera porta il turismo di massa all’Isola di Albarella. Giovanni Barbin, Luigi Caccia Dominioni, Andrè Studer, Ico Parisi ne disegnano le membra e la punteggiano di edifici tra memorie veneziane e suggestioni naturalistiche.

 

Bibione, Mercato coperto. Contrapposto all’edificazione estensiva e alle tentazioni organiche, il mercato di Gianugo Polesello infrastruttura la località turistica attraverso un frammento di tessuto urbano reinterpretato modernamente.

 

Lignano Pineta. Dispiegata nella pineta, la spirale di Marcello D’Olivo struttura quasi caleidoscopicamente un “progetto integrale” innervato dal suo edificio per il commercio -detto “Il treno”- e altrettanto organicamente punteggiato dalle case sue e di Gianni Avon.

San Lorenzo

Andrea Milesi

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Marzo 2018

Sulla strada disordinata che sfila tra palazzi novecenteschi si affaccia una casa in rovina, memoria di guerra. Il Verano non è molto distante, e ancora più vicine sono le torri chiare della stazione Termini, impettita costruzione di regime. Varcato il pesante portone in legno, a sinistra della ripida scala, si apre il corridoio lastricato di pietra scura che, passando per la portineria, conduce alla corte interna. Stretta e allungata porta lo sguardo in alto, ad accarezzare i panni stesi che filtrano e colorano la luce del sole, che al soffiare del vento dolce, diviene dinamica e ancor più viva, allegra e popolare. Salendo le scale s’incontrano i ballatoi, scena di un teatro improvvisato e sorprendente. Ragazzini di diversi colori giocano e litigano, urlando. Un’anziana signora con fare da equilibrista innaffia piante di limoni in punta di piedi mentre una giovane ragazza, braccia di formica, sposta scatole che contengono la sua intera vita. Ogni scena è accompagnata da un pubblico, che con un fare tra l’indifferente ed il diffidente, rimane appeso sulle ringhiere come in una galleria di teatro. Questo è spazio denso di vita, piazza scomposta in altezza, immediato centro della vita comunitaria. Luogo di relazioni.

All’ultimo piano, in fondo al ballatoio, si apre la doppia porta della casa. È una stanza con un bagno giallo, piccolissimo. Tanto profonda da affacciarsi nella corte vicina, che punteggiata da finestre, regala squarci nelle vite delle persone che abitano gli appartamenti. Tanto alta da farci stare un letto con i trampoli, pericolosissimo da scendere nel buio. Il pavimento a scacchi gialli e bianchi ricorda il gioco. Tutto al suo interno trova il posto giusto, minimo e necessario, a formare un universo di attenzioni e cure quotidiane, mentre fuori i gabbiani guardiani di antenne e camini, portano sotto le ali l’aria tiepida di Ostia.

Dal piccolo tavolo da pranzo, ora che gli schiamazzi della lite sono terminati, si riesce a sentire il rumore di un pallone che un bambino sta calciando, probabilmente da ore, contro il muro del cortile. A ritmo perfetto, di metronomo. Assorto nella concentrazione tipica del monaco, è alla ricerca del gesto perfetto.

Ma che distratto, sei

Flavio Pellegrini

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Il Commutatore, Ugo La Pietra, 1970

Così parla l'antitesi di Giovannino Perdigiorno. A Rodari basta una battuta dai toni aspri e supponenti per

trasformare questo casuale interlocutore (di cui non vogliamo conoscere l’identità) in una versione

aggiornata della servetta trace. Solo una cosa cambia dall’aneddoto platonico: il protagonista. Talete, nella

sua distratta camminata, cade accidentalmente nel pozzo perché ha lo sguardo rivolto alle stelle: anzi

nemmeno, ha lo sguardo introspettivo rivolto dentro sé stesso. Un classico del filosofo - flaneur, dimentico

della realtà circostante. Potremmo quasi dire che si meriti di caderci in quel pozzo, così come di essere

deriso dalla ragazzetta un po’ irriverente. Se lo merita perché, forse, è un cortocircuito astrarre dalla realtà

dimenticandosi che la stessa è il punto di partenza, la prima esperienza sensibile. È lì che dovrebbe

cominciare e concludere l'astrazione. Proprio come fa Giovannino! Che è un po’ un’evoluzione di Talete.

Quel barattolo vuoto, che lo incuriosisce così tanto, non è la scusa per decidere di elevarsi con chissà quale

volo pindarico, bensì la ragione profonda per iniziare a porsi delle domande. Domande proprio su quel

barattolo! È davvero vuoto? E cosa c'era prima?

Questa analogia, certo didascalica e un po' scolastica, vorrebbe essere uno spunto di riflessione per capire

se valga la pena essere un po’ meno come Talete e un po’ più come Giovannino: innamorato di ciò che lo

circonda (così tanto da essere folle agli occhi altrui), pieno di dubbi, domande (di cui non sempre trova le

risposte) e curiosità. Giovannino è protagonista di una passeggiata che è un’altalena sempre carica di

tensione, mai scontata e prevedibile, lontanissima dalle ripetitive promenade domenicali.

Dovremmo essere decisamente più interessati, anzi innamorati, del nostro intorno (inteso quasi in senso

strettamente matematico). In ogni punto della realtà in cui siamo calati, viviamo un certo intorno

architettonico (chiuso o aperto) che è l’esito formale di scelte di altri: scelte che poi condizionano le nostre

vite, in maniera decisamente pesante. Per esercitare la buona attitudine – abitudine alla non – passività

intellettuale, accorre in nostro aiuto l’artista Ugo La Pietra: il suo “commutatore” è

uno strumento semplice ma provocatorio, che permette di riscoprire angoli, punti di vista e prospettive che

tipicamente trascuriamo perché distratti, disinteressati, passivi.

Potremmo quindi concludere che questo atteggiamento (critico, ma anche e soprattutto sentimentale!

intendiamoci) diventa non solo un dispositivo esistenziale, contro la passività, ma anche etico e civico: una

vera e propria responsabilità che ognuno dovrebbe sentire nei confronti dell’altro.

Monumentum aere perennius?

Davide Fusari

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J.Plečnik, Monumento al poeta Simon Gregorčič, 1936/37, dettaglio

Un recente viaggio a Lubiana mi ha posto di fronte, dopo tanto tempo e attesa, ad una città che pare essere quasi un tessuto trapuntato e impreziosito dalle architetture di un architetto, Jože Plečnik. 

 

La sua cifra dà forma a tutto il paesaggio urbano, e quasi ovunque il suo linguaggio è leggibile nella punteggiatura di busti, steli, are, epigrafi che ne segna le facciate, i viali e gli angoli. Ricorrono insomma monumenti che, nello scenario di una città di provincia che volveva a capitale, hanno contribuito a rappresentare una neomemoria nazionale.

 

Nella vulgata, il termine “monumento” viene associato sempre più per esteso a quelle opere che perpetuano il volere di chi le ha realizzate oppure in relazione alla scala della loro entità: sembra essersi perso invece il potenziale di quelle architetture, piccole o grandi, costruite per il solo scopo di trasmettere qualcosa -un fatto, un eroe, un valore- attraverso loro stesse.

 

Realizzare monumenti è una pratica antica che sa di modelli arcaici di potere ma che, in tempi più vicini a noi, ha trovato declinazioni più inclusive e articolate richiamando all'importante questione del farsi dell'identità composita delle comunità, ricordando atti di dominio e perdita; progresso e stasi; gioia e pianto.

 

Il Moderno ci ha insegnato che il linguaggio dell'architettura è lo spazio e attraverso questo ha trovato un suo modo per realizzare monumenti ai valori di una società in evoluzione: non da ultimo Louis Kahn con l'abitabilità del suo postumamente realizzato Roosevelt Memorial.

 

Oggi, sempre più, i monumenti sembrano essere realizzati solo per commemorare fatti negativi, per invitare a non fare più, segnando i luoghi della violenza con azioni alle volte nemmeno condivise, come ha dimostrato il caso del contestato taglio nel paesaggio a ricordo della strage di Breivik.

 

Forse abbiamo perso la percezione del buono che possiamo trasmettere, la condivisione dei modi attraverso cui vogliamo ricordare, la coerenza dei valori cui facciamo riferimento (o quantomeno la loro coesistenza: la comunità sono fatte di diversi): trasformata la vita in una sequenza di scatti, celebrando il qui ed ora, dimentichiamo cosa li sostiene e quali di questi vorremmo davvero perpetuare.

 

Plečnik con i suoi segni ci ricorda che la consapevolezza di ciò una comunità vuole rappresentare attraverso i simboli che sceglie potrà farne la storia e potrà contribuire a fare di quella comunità un esempio per altre. La contemporaneità quali storie racconterà? Troverà dei suoi linguaggi per farlo? Provocando, abbiamo qualcosa di buono da raccontare ai posteri?

L'architettura della scomparsa

Damian Plouganou

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Cueva de Antiloquìa

Esiste una intrinseca dipendenza dalla rappresentazione nell’architettura dell’antica Grecia – e in qualsiasi riferimento alla capanna primitiva – che trova il suo contrappunto nel concetto costruttivo ai suoi antipodi: la caverna.

Nelle costruzioni paleocristiane è però palpabile la scomparsa di questa dipendenza; una scomparsa che, è bene rimarcare, si manifesta letteralmente, attraverso un’esperienza architettonica che non si sviluppa in uno spazio fisico vero e proprio.

Bruno Zevi sottolinea i passi in avanti compiuti dall’architettura romana nella concezione degli spazi interni e, specificatamente, attribuisce all’architettura cristiana – alla corruzione della forma determinata dal circolare e abitare la basilica – il passo definitivo verso la spazialità.

Nell’architettura romana è invece ancora impossibile dimostrare una genesi dell’architettura che non si sviluppi a partire dall’esterno.

Fa eccezione la Cisterna Basilica, costruita da Giustiniano I nel VI secolo a Costantinopoli, la quale, pur presentando un impianto tettonico essenziale – è completamente ipogea –  ricerca comunque un’espressività: l’ordine corinzio, la colonna delle lacrime, le basi con le teste della Medusa... un monumento sommerso.

Nelle prime costruzioni paleocristiane d’Antiochia, realizzate tra il II e il III secolo, il richiamo alla ‘caverna’ risulta più radicale: l’architettura è riservata unicamente ai fedeli – anonimi ed esiliati – e racchiude tanto le necessità domestiche come quelle spirituali, includendo altresì l’espressione artistica; i muri vengono ricoperti da rappresentazioni bibliche e racconti di omicidi e torture di una religione fino a quel momento pagana. Ancor più impressionante ai nostri occhi risultano i ritrovamenti di oggetti quotidiani all’interno di questi luoghi: tavoli, nicchie scolpite nella roccia, scale e passaggi scavati, dispense e cucine.

Nelle costruzioni bizantine l’architettura si presenta ancora una volta come edificio, ereditando però la condizione di caverna e tornando, forse per la prima volta, ad essere invisibile. Santa Sofia, sempre a Costantinopoli, rivela la sua vera dimensione solo interiormente; l’esterno non è altro che la sua risoluzione costruttiva: si tratta di una caverna ricavata da una montagna costruita dall’uomo.
Al giorno d’oggi, il concetto di ’ capanna primitiva’ è ancora dominante nel mondo della rappresentazione e della cristallizzazione di una idea a differenza del concetto di caverna che, invece, grazie alla sua ‘invisibilità’, permetterebbe di liberarsi di molti vincoli e suggerire nuove esperienze spaziali; non a caso, per Platone, l’abbandono dell’ignoranza coincide con il mito della caverna.

Viene meno l’esigenza che l’architettura si manifesti come un oggetto; al circoscrivere la sua essenza al rifugio si limita anche il suo ruolo civico, svincolandola da eventuali dilemmi razionalisti. Non più un’architettura per la comunità, nessun simbolismo ma soltanto un paesaggio manipolato nel quale si innesta un essere alieno, artificiale, che si limita a soddisfarne le necessità più essenziali.

L'angelo laico

Luca Montanarella

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Torre Bauer

All’improvviso, il cielo color cenere. 
La luna comincia a tinteggiare la vallata con una polvere inesistente, proponendo un crepuscolo alieno in un orario del giorno inappropriato. Un’enorme sfera nera galleggia nell’aria minacciando i tetti del paese, facendosi beffa della la forza di gravità come un fantoccio di stoffa sospeso da fili d’argento.
Prima, il giorno: limpido. 

L’ossigeno dell’alba è freddo ma porta con sé la certezza di un pomeriggio terso. La cittadina di Vicuña ci accoglie sonnolenta e solo la panetteria si presta come rifugio nel vagare tra i muri di terra del contesto. La vicina piazza raccoglie gli edifici più rappresentativi: la chiesa ed il municipio. La Iglesia de la Inmaculada Concepción, dal color porpora, cerca di schermarsi dalla luce nascondendosi dietro agli alberi, proteggendo al suo interno le delicate colonne lignee che sostengono la volta a botte. La Municipalidad, dal color porpora, domina l’incrocio con una torre piuttosto sgraziata diventando, suo malgrado, la protagonista indiscussa nell’omogenea altezza dei fabbricati limitrofi. Fin dalle prime ore del pomeriggio, centinaia di uomini e donne cominciano, nel cuore della ricca geografia del Valle del Elqui, un rituale da esploratori alla conquista di un colle o montagna che li possa avvicinare di qualche centimetro al cielo, illudendoli così di poterlo accarezzare. Mentre il vento si fa traghettatore di sabbia indispettendo la liscia superficie del Rio Turbio, l’imponente Cerro de la Virgen organizza l’orizzonte intorno ad un anfiteatro naturale, segnalandoci al contempo la posizione dell’osservatorio astronomico di La Silla, poche centinaia di chilometri più a Nord.

Finalmente, l’angelo: spietato.

Quanto è difficile abbandonare la prospettiva, costruzione di un mondo fantasma, e (ri)dimensionare oggetti e spirito. Quanto è difficile essere coscienti di aspettare l’innominabile, solo apparentemente familiare. Per la prima volta l’infinito diventa misurabile: due minuti e trentasei secondi, il tempo della bellezza più profonda, feroce, che inibisce i sensi; ‘‘l’inizio del tremendo, che sopportiamo appena, | e il bello lo ammiriamo così perché incurante | disdegna di distruggerci.’’*

L’eco del suo silenzio risuona nelle ossa di un intero popolo in processione verso Santiago, raggiunta dopo quindici ore di pellegrinaggio automobilistico alla prima luce del 3 luglio 2019.


*Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi. Frammento della Prima Elegia, traduzione a cura di Jutta Leskien.

Distopia

Daniele Panni

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Anonimo, Città ideale, 1480-1490

Da lontano sembra un piccolo universo. Immerso nel buio, la si nota solo per la moltitudine di lampade che la costellano, senza peraltro illuminarla. Avvicinandosi dall’alto, si cominciano a distinguere edifici alti ricoperti di schermi pubblicitari, il cui alone lattiginoso si riverbera nella pioggia, che cade incessante. In prossimità del terreno, lasciato il traffico dei veicoli volanti, ci si immerge in una folla variopinta, rumorosa, eterogenea.

Questa è l’immagine della città del futuro proposta da scrittori e registi, dominata dalla tecnologia, dalla rapidità, dalla congestione.

Eppure ciò che sta accadendo sul nostro pianeta ci indica che la direzione corretta da seguire sia quella opposta, di una riscoperta della semplicità, della lentezza, della rarefazione.

La tecnologia ci aiuta, permettendoci di lavorare da remoto, così che gli uffici si svuotano, le città si alleggeriscono dal traffico pendolare, i marciapiedi vengono allestiti per poter continuare a godere della compagnia delle persone care, a cui abbiamo dovuto rinunciare durante la primavera.

Le strade si ripopolano di persone e non più di abitacoli mobili: in bicicletta, a piedi, in monopattino, ora ci si guarda nuovamente negli occhi mentre ci si incrocia sulla via.

La città riacquista la sua dimensione brulicante di vita, la sua scala umana, i suoi edifici accolgono nuovamente le attività e si adattano alle nuove abitudini, che dilatando gli spazi interpersonali modificano i rapporti tra il costruito e lo spazio aperto.

Nuove norme regolano la vita quotidiana, nuove e diverse sfide deve affrontare l’umanità, e lo spazio che la accoglie si adatta. Cominciamo ad abitare i luoghi diversamente, con maggiore attenzione: durante il confinamento ci siamo resi conto che ciò che consideravamo un rifugio temporaneo dove passare il poco tempo a disposizione è in realtà lo specchio del nostro mondo interiore. I grandi magazzini vicini ai nodi infrastrutturali, prima presi d’assalto durante i fine settimana, ora non ci attirano più. Al contrario, preferiamo riscoprire i luoghi più rappresentativi delle nostre città: i centri storici, le piazze, i monumenti, i teatri, i musei, i cinema, i caffè. L’energia delle attività umane ha da sempre animato questi spazi, la cui forma aperta ha saputo accogliere nel corso dei secoli le successive modificazioni della vita di comunità, dotandoli di senso.

Ora è il momento in cui ognuno di noi deve ripensare la città del futuro, abitando la propria città ideale.

Oneta

Andrea Milesi

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Marzo 2020, tarda mattinata

Il cielo è terso, di quelle giornate in cui l’aria è buona per far vedere i dettagli più minuti delle cose. Funziona come una lente.

La strada porta in un antico borgo nascosto a valle, adagiato sul pendio in modo ordinato. Il suo disporsi è ancor più percepibile percorrendo le strette vie, visto che tutto è adattato alle pendenze del terreno. Lo scavo è minimo, pressoché uguale al riporto. Le cose si adagiano alla montagna. La via scende ed i lunghi gradoni scandiscono il passo. Velocemente, senza alcun preavviso, le costruzioni si diradano e la via umida d’ombra si apre al sole, dove il tepore ritrovato invita dolcemente alla sosta. L’occhio corre sul paesaggio verde con la vallata in basso ed in alto, all’orizzonte, le vette del versante opposto.

Alle spalle, le antiche costruzioni, si asciugano al sole e guardano, respirando i venti che salgono dal fondovalle. Tra le varie finestre ritagliate sulle pareti in pietra una, forse per farsi bella di fronte alla vista, indossa un contorno di intonaco fine di calce bianca ornato con un motivo a semicerchi rosso porpora. Una linea di rimmel, manifesto di una ricerca di dignità ulteriore di quella derivante unicamente dalla funzionalità e dall’economicità.

Primo

Danilo Monzani

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Oblò

La terra è disabitata? Da quassù perlomeno lo sembra.

Dall’oblò della nave vedo allontanarsi le case, sempre più piccole, sempre più insignificanti. La città che abitavamo. Tutto insignificante come all’interno di questo mostro volante, uguale e ripetitivo all’infinito. Il grande esodo ci ha imposto il viaggio verso l’ignoto, sperimentando questo modo di convivere, ma molti di noi erano già abituati a questo tipo di vita nei “modernissimi” quartieri dormitorio. Io no. Io vivevo allora in un’isola felice. Una città vera, con vere vie, vere piazze, veri luoghi di incontro. E la vita era semplice, succedeva senza che nessuno ci mettesse dentro niente in quei modernissimi contenitori di tutto. Avveniva e basta.

Qui sull’astronave abbiamo accettato di cambiare le vie con i corridoi, le case con stanze, le piazze con stanze più grandi, gli edifici del vivere comune in altre stanze. Che bel compromesso: l’esodo per vivere meglio su un altro pianeta, ma in realtà abbiamo dimenticato di vivere bene su questo, non lo impareremo neanche sull’altro.

Guarda che bella questa stanza: gigantesca, una semisfera con una vetrata enorme che la cinge. Vi arrivano diversi corridoi e la cosa che mi colpisce è la simmetria: impietosa, precisa e asettica: le dimensioni del corridoio con sezione circolare, l’angolo di incidenza del corridoio stesso sulla stanza, lo spessore delle pareti del corridoio, il tutto muove da istanze diverse dall’armonia con cui si costruiva che so, nel medioevo, o nel rinascimento. Non più quell’armonia quello stupore, quella emozione nel trovarsi davanti un monumento. No, al massimo qui sbarchi in una stanza gigantesca (che è forse l’unico aggettivo che trovo ora) e guardi, o indietro a quello che perdi, o avanti a quello che non troverai mai, un buio insensato…cosmico, siderale. Ma è giusto così, questa nostra casa deve resistere ed essere efficiente per trasportare noi verso il futuro. Cerco di convincermi che sia la forma più adatta ma in realtà cosa è rimasto dell’armonia delle città e del sapere dell’uomo moderno?

Dimenticato sin da ora. Nulla rimarrà alle future generazioni. Solo stanze unite da corridoi di chirurgica precisione. Niente della sensibilità che ha contraddistinto la città che ho lasciato alle spalle.

Mi chiamano all’improvviso, vedo lontano in quella sottospecie di cubo con scritte a LED travestito da pub i miei compagni. Credo che ora li raggiungerò. Credo che ora mi berrò una birra sintetica. Credo che vorrò dimenticare anche quella.

Secondo

Danilo Monzani

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36° 31' 49.100'' N   6° 17' 53.800'' W

La terra è disabitata? Da quassù perlomeno lo sembra. 

Ai livelli più alti della atmosfera l’astronave continua il suo moto di stazionamento; come un satellite, ha intercettato un’orbita precisa ed efficiente capace di rendere il viaggio dell’astronave un capolavoro ingegneristico fine a sé stesso: obiettivo, fine e mezzo dell’autosostentamento dell’astronave unonove84 è l’autosostentamento stesso. 

A fronte di ciò tutte le istanze del vivere e abitare collettivo vengono meno: non risultano nemmeno contemplate a corollario del linguaggio progettuale con cui abbiamo voluto queste macchine per abitare. Fortemente volute. Macchine fortemente perfette. 

Ecco il grande esodo: la nuova era in cui la tecnica è diventata lo scopo stesso dell’intento umano. Nessun nuovo orizzonte fuori, un orizzonte alienante dentro: nelle ripetizioni infinite di efficientissime suddivisioni di spazi non puoi perderti e allo stesso tempo sei sempre disperso. Conosco perfettamente dove mi trovo data la successione di spazi uguali, ma questa ossessione labirintica mi fa perdere l’orientamento e la consapevolezza del luogo. Il passato e il futuro sono sempre uguali, il presente non esiste se non in funzione delle connessioni. Scompaiono le coordinate locali e se non fosse per i localizzatori non arriverei mai a destinazione. 

Dov’è l’umanità in questo: non ci sono spazi per la vita in comune o per riconoscere un proprio angolo di mondo. Non si può essere orgogliosi di un territorio infertile e sterile. La ripetizione incessante mi porta a disconoscere i luoghi, a non elevarne nessuno come mio proprio. Non appartengo a un posto, non abito un luogo; sono alla stregua di un ingranaggio.

 

Mi ricordo un vecchio angolo in una piazzetta quando ancora stavo sulla terra. Non era bello, ma era bello per me, era mio, il mio posto. D’estate spirava un fresco vento, convogliato dalla conformazione particolare del basso caseggiato; si stava bene le persone del circondario ci si trovavano, senza fare niente in particolare. Vivevano all’ombra di un albero, come adesso non vivono i corridoi e le stanze prive di ombre; senza la scusa dell’evasione c’era un orizzonte interiore grandissimo dove la vita avveniva in maniera naturale e sociale. 

Con questo nella testa sono arrivato alla locanda, una delle tante attività impiantate in una scatola, come se ciò bastasse a instillare la voglia di aggregarsi nella gente. Qui la gente ha solo voglia di evadere da quello che vede.

Terzo

Danilo Monzani

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28° 36' 53.100'' N   77° 04' 01.000'' W

La terra è disabitata? Da quassù perlomeno lo sembra.

 

Entro e ordino la sintetica prima di sedermi e raggiungere i soci al tavolo, mi è sempre piaciuto prendermela con comodo e non me ne sono mai fatto un problema. Ma i ritmi lenti e riflessivi non fanno per l’astronave che con i suoi ritmi di macchina scandisce attività cicliche e ripetitive: un asfissiante modo per alienare le anime perdute in questa ridondante esistenza. Io non ho mai realmente abitato questa astronave. 

La ripetizione si ripropone davanti alle birre: discorsi vuoti di qualcosa che non ci appartiene sentiti milioni di volte. 

Ognuno chiuso in se stesso non dialoga realmente con l’altro, qualcosa del modo in cui viviamo ci ha corrotto. Lo spazio ci sta soggiogando e lo fa attraverso la nave e le sue regole. 

La conformazione spaziale interna genera disorientamento: aberrante. La collettività non traduce il questo malessere privato in soluzioni per tutti: non può, ognuno è solo; tutti sono soli. Uniti siamo solo il numero dei componenti della astronave.

 

Con tutta questa solitudine dobbiamo convivere. Sulla terra facevo tanta strada per incontrare amici o vecchi compagni di scuola, ma anche allora mi ricordo che la crisi del vivere solitario stava per colpirci. L’esodo ha solo accelerato una situazione che ormai andava concretizzandosi nella vita di tutti i giorni: da quando abbiamo lasciato le campagne per vivere in mega aggregati di unità abitative nelle città, e la vita sociale minuta, lenta, ha perso sempre di più importanza e prevalenza per gli uomini. Non posso dire di averne mai sofferto, ma ora è troppo: la solitudine viene gridata dal mondo intorno al punto di costituirne l’ossatura e il tema fondante dell’architettura che attualmente mi circonda; ne crea la morfologia, assuefazione a cui tutti prima o poi si arrendono, a cui ognuno arriva al compromesso di preferirla alla morte. 

La società non esiste più, e lo spazio costruito (se così si può definire) ne è la causa ed il risultato al tempo stesso. 

Guardo la birra, è orrenda. La birra era società, questa ne è la sua negazione.

Quarto

Danilo Monzani

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41° 53' 32.300'' N   12° 29' 09.000'' W

La terra è disabitata? Da quassù perlomeno lo sembra. 

All’interno del pub arrivo al posto assegnato dalla macchina, dove i miei compagni già consumano. La birra compare sul materializzatore in fronte a me. A questo punto potrei berne duemila, mi sale la carica, ma tutto sfuma velocemente. 

Scambio le solite battute e organizziamo la prossima visita al comparto intrattenimento della nave; rigorosamente a prenotazione e rigorosamente escursioni programmate: in pratica è come aver già vissuto quella esperienza. 

Mi congedo dopo poco e sulla via del ritorno decido di fare un salto in biblioteca, mia unica evasione insieme alle vecchissime radio che mi sono faticosamente costruito. Arrivo alla biblioteca digitale, in ogni dispositivo che ti viene concesso in prestito vi è racchiuso tutto lo scibile umano fino al giorno della partenza e aggiornato ciclicamente delle novità. Grande meno di un quaderno! 

In questa ottica la biblioteca potrebbe essere semplicemente composta da una sedia e una scrivania: idea molto scarna e tuttavia per niente essenziale. Minimalista oserei dire, ma l’essenziale alla lettura e al sapere è ben altra cosa… 

Quella in cui mi trovo è un tipico compromesso di qui: la biblioteca non è altro che una scatola che può vestirsi come più aggrada il visitatore. Delle nicchie poste sui lati permettono l’isolamento totale dal resto dei visitatori e la tecnologia permette l’esperienza di visita all’interno delle principali biblioteche che esistevano sulla superficie terrestre: non siamo più in grado di inventare niente. 

Non mi perdo d’animo e mi catapulto all’interno della biblioteca di Exter di Louis Kahn: un maestro.

 

Che spazio! Che atmosfera surreale. Un cubo anche quello, come ciò che mi circonda, ma letteralmente un altro pianeta. Pura esaltazione della luce e di uno spazio dedito alla concentrazione, un uomo al suo interno non si sente disperso, spaesato o insicuro, ma assorto e rapito dalla profonda bellezza del luogo: un aiuto e un sostegno al sapere che vi è contenuto. È incredibile il fatto che pensare a quella biblioteca vengano solo in mente come aggettivi degli stati dell’animo e tutto ciò che concerne la sua bellezza, ma nulla che può essere la pura descrizione delle misure e della capienza degli spazi che la compongono. Delitto descriverla come uno spazio per contenere libri, è piuttosto uno spazio che contiene la mente umana.

Quinto
Danilo Monzani

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26° 23' 38.600'' N   80° 11' 11.400'' W

La terra è disabitata? Da quassù perlomeno lo sembra. 

Sono nella mia unità, cella 101 telario 101 dell’arnia centrale della astronave. Arnia è presto detto, la distribuzione delle celle nel settore dormitorio è come un telaio di una vera e propria e arnia: l’esagono è la forma che consente di riempire una superficie con il numero maggiore di celle e garantisce un comfort minimo alla vita. Le celle e i telai, quasi interamente intercambiabili tra loro sono strutture prefabbricate e assemblate in modo che la configurazione finale sia sempre adeguata al viaggio sulla nave. 

Sono coricato sul letto della mia cella, durante il turno di riposo. La scansione lavoro-riposo con maggior efficienza è stata calcolata attraverso un algoritmo. 4 turni da 6 ore di lavoro intervallati da 3 ore di pausa, dopodichè 72 ore di riposo. In questo modo si portano a termine dei compiti standard ogni ciclo e si impostano attività di lunga durata. 

Allo stesso modo è stato elaborato un algoritmo per l’efficientamento occupazionale di ogni arnia-dormitorio, ovvero la dimensione minima possibile degli alloggi all’interno della nave. Come suo più grande risultato l’algoritmo ha generato le celle e i telai; algoritmo complesso che ha stabilito perfettamente come la vita debba andare (solo andare, solo procedere); il tutto senza ostacoli né indecisioni, nessuna incertezza, neppure nel proprio letto. La vita privata e la proprietà privata sono possibili nella misura in cui gli oggetti in proprio possesso stiano in casse di sicurezza che all’occorrenza possono essere trasferite o espulse dalla nave: la flessibilità viene imposta dall’alto e come tutto è opprimente. 

Già durante gli ultimi periodi sulla terra si era persa l’abitudine di considerare gli umani come esseri aventi esigenze svincolate dalle dimensioni dello spazio in cui abitavano: contrariamente al passato in cui l’uomo era al centro delle ipotesi della “macchina per abitare” (potente sapere tramandato nelle scuole), in tempi più recenti le teorie progettuali ponevano i pensieri riguardanti l’uomo a un livello superiore, per meglio dire “più superficiale”; la società ha generato una sua macchina per costruire con prototipi abitativi di cui l’essere umano risulta esserne un componente. Non già il fruitore ultimo dello spazio, ma un ingranaggio del complesso di idee e costruzione, costretto e costipato ospite di spazi generati dal business.

 

La macchina per abitare aveva fagocitato il motivo della sua esistenza rendendolo parte del tutto: esisteva per costruire con il solo scopo di costruire…

 

I pensieri infine mi scappano. È un chiaro abbaglio. Dopotutto in questa stanza ci vivo.

Sull'incompiuto
MRND
 

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un rifugio in cemento


 

Preservare la memoria è un processo di sovrascrittura (preservando / riparando) la costruzione esistente. Inizialmente, lo sviluppo/elaborazione del design risulta essere un grezzo (e forse ingenuo) approccio a una (esistente) struttura costruita. Tuttavia, in qualche modo la struttura porta con sé una certa qualità spaziale, grazie al suo attrito/contatto con un muro esistente costruito per dividere gli appezzamenti e con il l’ambiente naturale circostante. La creazione di questo 'attrito spaziale’, la tensione tra momenti diversi, è generata dalla stasi nel tempo della struttura edificata, dal suo essere intoccata, immutata (se non dal degrado dovuto al passare del tempo che hanno reso la struttura permanentemente incompiuta).

La proposta progettuale non intende avere un'uniformità materica, in modo da alimentare il continuo attrito tra la struttura esistente, che andrebbe a diminuire nel tempo, con il costante emergere della natura ed il continuo degrado del materiale - creando così una 'naturale omogeneizzazione tensionata'. Mantenendo la propria espressione spaziale (rapporto con il paesaggio, il sito e l'ambiente circostante), la materia diventa un tema sospeso relativo all'ambiente costruito, che a causa del suo (nuovo ciclo di) degrado, genera un (ri)assemblaggio / elemento di fusione (ed esso stesso un processo), un elogio / celebrazione della struttura esistente, del luogo in cui sorge, dell’ambiente che la circonda e della sua memoria incompiuta.

La città opaca
Luca Montanarella
 

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Mario Sironi, La cattedrale, 1924 circa


 

Il 18 ottobre 2019 le stazioni della rete metropolitana di Santiago del Cile sono state travolte da una protesta feroce e incontrollabile.

Si tratta del primo giorno dell’estallido social che avrebbe messo a ferro e fuoco il paese per oltre un anno: un’azione collettiva e quotidiana nella quale i cittadini manifestano apertamente contro un sistema economico reo di aver contribuito ad accentuare le disuguaglianze sociali in favore di una ristretta cerchia della popolazione.
Mesi di gas lacrimogeni, incendi, saccheggi, militari in piazza, canti, esplosioni, pianti e grida nel cuore della città, in corrispondenza dell’Alameda, la principale arteria veicolare che dalle Ande si srotola verso l’Oceano Pacifico.

Lo spazio pubblico come teatro di una vera e propria guerriglia, dove le fermate dell’autobus diventano trincee, le pietre dei marciapiedi vengono sbriciolate per assumere la forma di armi da lancio, dove i cartelli stradali, sradicati dal cemento, si trasformano in spranghe e i coperchi dei bidoni dell’immondizia in scudi di plastica improvvisati.

Mentre dal punto di vista politico e’ ancora prematuro intuire cosa abbiano lasciato in eredità le proteste, a distanza di quattro anni e’ possibile inaugurare una prima riflessione sulle conseguenze architettoniche e urbane delle manifestazioni.

Gli scontri hanno restituito una Santiago gravemente ferita nei suoi tessuti più fragili ed indifesi, coincidenti con i servizi comunitari che strutturano i suoi quartieri.

La lotta contro il potere dominante non ha colpito i simboli del governo, delle banche, delle istituzioni o delle multinazionali, bensì gli edifici maggiormente esposti, quali caffè letterari dall’accesso gratuito, centri culturali, cinema indipendenti, teatri e piccoli musei intitolati a poetesse da non dimenticare.
Infrastrutture libere, aperte e associative ma prive della protezione armata di guardie, esercito e polizia.

La condizione attuale degli spazi pubblici rivela lo stato di allerta permanente di una metropoli che, solo in apparenza, si e’ lasciata alle spalle i mesi a cavallo tra il 2019 ed il 2020.

Una diffidenza riscontrabile anche nell’edilizia civile del centro storico, dove ancora oggi, in vista di un eventuale ritorno all’emergenza, viene privilegiato rivestire i vani delle facciate con resistenti superfici di latta piusstosto che procedere alla riparazione dei vetri frantumati.

L’immagine di una città opaca, convalescente, che dovra’ essere capace di ridisegnare velocemente i luoghi della collettività, custodi dell'identità e del confronto imprescindibile per costruire un nuovo, ambitissimo, futuro.  

In un cimitero di campagna
Andrea Milesi
 

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Marzo 2015, primo pomeriggio


 

L’aria non è fredda e la nebbia della pianura è indorata da un tiepido sole. La strada si fa largo fra campi a riposo e fossati asciutti. Sulla sinistra, ai margini del paese, un camposanto. Il muro di cinta che lo racchiude alterna tratti in semplice muratura bianca a gelosie in mattoni mentre l’ingresso, quasi monumentale, è individuato da un portico coronato da una cupola eretti a protezione di un portale decorato. Il complesso ha le forme di tante architetture religiose costruite nelle campagne dell’ottocento, caratterizzate da un tentativo di eleganza comunque intriso di dignità e rispetto. All’interno un catalogo di incisioni, vetri colorati, marmi, altari e cappelle. Le foto dei morti, quasi sempre anziani.

Fra tutti i colori e le forme emerge un prisma regolare, una massa muta di pietra bianca che avvicinandosi rivela una fenditura. Salendo il gradino e spingendo il grande e pesante portone in legno si entra nella piccola stanza completamente aperta su di un giardino minimo, una striscia di terra piantumata fra la finestra ed il muro esterno del cimitero. Una panca in legno induce la sosta e delicate incisioni ricordano persone care. È un luogo di pace in cui la pietra che all’esterno appariva bianca, qui emana un colore ed un calore di mollica di pane che concilia con la pace e la riflessione. È un luogo compresso in cui il corpo trascende i propri limiti fisici fino ad espandere il tempo ed il pensare sino all’infinito.

 

«e mi venne così di descrivere

il sentimento della durata

come il momento in cui ci si mette in ascolto,

il momento in cui ci si raccoglie in se stessi,

in cui ci si sente avvolgere,

il momento in cui ci si sente raggiungere

sa cosa? Da un sole in più,

da un vento fresco,

da un delicato accordo senza suono

in cui tutte le dissonanze si compongono e si fondono

assieme.

 

“Ci vogliono giorni, passano anni”:

Goethe, mio eroe

e maestro del dire essenziale,

anche questa volta hai colto nel segno:

la durata ha a che fare con gli anni,

con i decenni, con il tempo della nostra vita:

ecco, la durata è la sensazione di vivere.

 

[…]

 

Durata si ha quando

in un bambino

che non è più un bambino

– e che forse è già un vecchio –

ritrovo gli occhi del bambino.

 

Durata non c’è nella pietra immortale,

preistorica,

ma dentro il tempo,

nel morbido.

 

Lacrime di durata, troppo rare!,

lacrime di gioia.»

 

Peter Handke, Canto alla Durata, Braitan, 1988

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